TELE… DICO | Il #Coronavirus, l’informazione. E quello che non vorreste sentirvi dire…

Covid. Covid. Covid. Ovunque. Ad ogni ora. Nei TG, nei talk del mattino e in quelli pomeridiani, In prima e seconda serata. Persino nei talent e nei reality, la pandemia entra prepotentemente sconvolgendo scalette e copioni. Ultimo caso emblematico le ospitate a scopo promozionale di film in uscita e spettacoli teatrali già programmate, inevitabilmente bloccati dal Dpcm in vigore dallo scorso lunedì. Martufello a “I Soliti Ignoti”, Edoardo Leo e Marco Giallini prima a “Ballando con Le Stelle” (con Ninetto Davoli e Massimiliano Bruno) e poi a “Da noi… a ruota libera”. E ancora Ezio Greggio a “Domenica In” (per citarne solo alcune).

Ospitate che si traducono in appelli contro chiusure che non sembrano trovare ragione d’essere nei dati (da quando sono state riaperte le sale è stato segnalato un solo caso di contagio segnalato dalle aziende sanitarie territoriali). In questa fase infatti dovrebbero parlare quasi unicamente loro, i dati e, in coda, i perché. Quali numeri giustificano oggi la chiusura di un cinema, di un teatro o di una qualunque altra realtà? Nonostante le misure prese, gli investimenti fatti dai gestori per garantire ai clienti la massima sicurezza si sono rivelate davvero così inefficaci ai fini del contenimento del contagio? Sfugge (almeno a me) quale strategia specifica ci sia dietro. Sfuggono le risposte a queste domande: dove avvengono i contagi? Nei bar? Nei ristoranti? Nelle scuole? Nei cinema? Si chiude tutto indistintamente, ma in base a quali dati inconfutabili? In questo mare magnum di opinioni discordanti e numeri contraddittori, diffusi a ogni ora dai media, l’unica certezza, questa sì che lo è, è l’urgenza di contenere il contagio. Di evitare la saturazione delle strutture ospedaliere. Come è giusto che sia. Ma per il resto di certezze ce ne sono poche.

Il Covid oggi è la notizia: nessuno lo mette in dubbio. Parlarne più che giusto è doveroso. Sui social c’è chi sostiene che se ne parli troppo, diversamente da altri Paesi come la Francia in cui i contagi sono (ad oggi) ancor più elevati. (Quasi) all’ordine del giorno si leggono tweet del tipo: “Leggere insieme i quotidiani francesi e italiani è un’esperienza straniante. In Francia, con 40.000 positivi al giorno, i giornali sono normali, con un articolo sul Covid. In Italia apro un qualsiasi giornale ed entro in un vortice di terrore e confusione assoluti”. Sfugge però che non è il quanto, ma il come a dover fare la differenza. Mai come oggi i media hanno una grande responsabilità. L’emergenza Coronavirus non deve essere l’occasione per dare sfogo all’ennesimo opinionificio ingiustificato e ingiustificabile. La verifica delle informazioni, dei dati che le suffragano (ma anche delle voci a cui si dà rilievo), la coerenza di pensiero devono avere la priorità. Non creare confusione deve essere il diktat. Perché la confusione oggi è come legna che si aggiunge a un fuoco sempre più difficile da domare.

Un fuoco che non è solo pandemia, ma è anche tensione sociale. Lo dicono le immagini dell’aggressione all’inviato di Sky Tg24 Paolo Fratter. Lo dicono alcuni agghiaccianti commenti scritti sui social in merito al reportage di Alessio Lasta “Ritorno nelle terapie intensive della Lombardia” trasmesso giovedì da Piazzapulita. Tra le tante cose che dovrebbe insegnarci l’emergenza Coronavirus c’è anche la pericolosità del parlare a vanvera. Dell’esprimere per forza la propria opinione su tutto anche senza cognizione di causa, limitandosi ai sentito dire, a conoscenze sommarie. Talvolta finendo anche per dare voce a fake news. Per alimentare disinformazione. Fino a mancare di rispetto a ciò di cui si sta parlando. E al chi. Quasi come se a far rumore debba essere per forza l’urlo, non l’autorevolezza. Pensiamoci.