È da diversi giorni che si succedono sul quotidiano di Marco Travaglio – giornale che nel mese di maggio ha incrementato in maniera notevole la propria diffusione, considerando sia cartaceo, sia digitale, come emerge dai dati Ads, riportati e correlati a diversi periodi da Primaonline.it, (+10,67% rispetto al mese precedente, +46,65% rispetto allo stesso mese del 2019) – interventi circa una riforma della governance Rai.
Il primo contenuto nel numero di mercoledì scorso, ad opera di Vittorio Emiliani, sembrava incurante della presentazione stampa che proprio il giorno prima si era tenuta a Montecitorio per presentare la proposta di legge, da parte di alcuni deputati di Leu, per rinnovare il sistema di organizzazione e controllo dell’azienda televisiva pubblica.
Il modello auspicato poi da Emiliani in qualche modo ricalcava quello ideato dal deputato Federico Fornaro e infatti dovrebbe prevedere secondo il giornalista “un comitato di “garanti” nominato da tre vertici (Quirinale, Senato, Camera) che a sua volta designi un esecutivo di holding ristretto, 5 membri. I quali rispondano soprattutto ai loro garanti.”
Ieri, invece, Giovanni Valentini, sempre sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, ha ripreso la questione partendo da alcune dichiarazioni del premier Giuseppe Conte, rilasciate a Travaglio circa due anni fa, esattamente il 19 luglio 2018:
“Difendere il servizio pubblico, assicurare una pluralità di voci, differenziare i canali e averne almeno uno senza, o con pochissima pubblicità.”
Il problema dell’azienda di Viale Mazzini per Valentini è infatti tutto concentrato in quella che viene definita come “doppia schiavitù della politica e della pubblicità”: i modelli da seguire sono quelli delle altri reti pubbliche delle televisioni europee, a partire dalla storica BBC, passando per i canali tedeschi Ard e Zdf, per quelli francesi della holding France Télévision e per la Rtve spagnola.
Soltanto che quello che da sempre viene considerato come un modello da emulare e sul quale costruire il futuro dei media, ovvero la BBC, negli ultimi mesi, sta perdendo parecchia della propria luminosità. È notizia dei giorni scorsi che il gruppo britannico dovrà attuare un taglio di 450 posti nelle sedi regionali, dove dovranno essere messi alla porta anche presentatori piuttosto popolari a livello locale.
Tale scelta, che vedrà anche la fusione fra i team della tv regionale e quella online e che viene motivata dalla direttrice di BBC England, Helen Thomas, con lo scopo di “riflettere meglio il modo in cui le persone vivono la loro vita, come ricevono le loro notizie e quali contenuti vogliono”, pare in antitesi con quella annunciata più volte dal broadcaster, di voler uscire dalla capitale britannica per dare spazio alle realtà locali, trascurate dalle televisioni commerciali.
Dal primo agosto, poi, a 3,5 milioni di over 75, fino ad oggi esentati dal pagare il canone, spetterà versare la cifra annuale di 157 sterline, che corrispondono circa a 175 euro: rimarranno esclusi invece un milione e mezzo di persone che rientrerebbero in questa fascia di età, ma che percepiscono un’integrazione da parte dello stato alla propria pensione.
La decisione, definita “non facile” dal presidente del network David Clementi, ha già suscitato dure reazioni nel mondo politico inglese: il portavoce del primo ministro Boris Johnson la ritiene una scelta sbagliata, così come il ministro della cultura, Matt Warman, che non sceglie di utilizzare mezze parole e la bolla come una mossa “frustrante”. Se i laburisti scaricano le responsabilità sul governo, resta comunque un dato di fatto: neanche la BBC è più la BBC.