TELE… DICO | #XFactor2020, un bagno di umiltà (e umanità) per il post-Covid… funzionerà?

Il prima. Il dopo. Chissà se in questi mesi anche a voi è capitato di pensare a quanto la pandemia ci abbia cambiato. Se ci ha cambiato. Forse sarebbe più facile chiedersi quanto invece abbia cambiato il mondo. Se davvero lo ha costretto a fare un passo indietro, a rivedere concezioni quali “globalizzazione” e “internazionalità”. A riconsiderare il valore della sostanza, dell’essere, in contrapposizione alla forma, all’apparire imperante. Ecco, se oggi dovessimo pensare a un programma capace di raccontare al meglio questi nostri tempi, quello potrebbe essere proprio X Factor. E non è un caso se l’edizione 2020, lanciata come un “nuovo inizio”, sia partita proprio dal Coronavirus. Dalle immagini di città deserte. Dalla musica che “non si è mai fermata”.

Qui però a imporre uno stop, una riflessione generale, prima ancora della pandemia sono stati i risultati insoddisfacenti della scorsa edizione. Qualcosa deve essersi rotto. E no, sarebbe troppo facile se per tornare a parlare al pubblico bastasse solamente qualche switch in giuria. Il problema è più profondo. È capire da dove ripartire. E in quale direzione andare. Poi, a febbraio, a rimescolare ulteriormente le carte, il Coronavirus.

Il prima di X Factor? Internazionalità, ricercatezza. E una confezione che sovrasta il contenuto. Un prodotto quasi da nicchia, a marcare la lontananza dalla generalista. Quasi a voler dire: “Il talent siamo noi”.

Il dopo? Più che “un nuovo inizio”, una sorta di ritorno alle origini. E non tanto per la (necessaria) assenza di pubblico. Né per quegli innesti in giuria (Mika e Manuel Agnelli) che ne richiamano il glorioso passato. Quanto piuttosto perché il racconto, in una cornice sorprendentemente minimal, sembra voler inseguire più la pancia che le orecchie, privilegiando il vissuto degli aspiranti concorrenti, le loro storie personali, le emozioni. Mai come quest’anno il focus è lì, sottolineato anche dall’efficace lavoro di una giuria più “umanizzata”, abile nel cogliere non solo le potenzialità vocali ma anche e soprattutto le sfumature caratteriali, lo spessore umano. È lì, nell’empatia che si crea tra giudici e concorrente. È nella commozione e, perché no, anche nel bonario perculare. È lì, in quella dimensione che riporta X Factor 2020 a una sorta di emo-talent dandogli una connotazione ancor più “generalista“.

E chi più di Emma ne è espressione? Lei, nata non a caso nel talent simbolo della tv generalista. Lei come Mika: battaglie sociali e personali portate avanti pubblicamente. Senza mai nascondersi. Mettendo sempre in primo piano la persona e non il personaggio. Qui sta il cuore del racconto. Non più solo nel riportare storie di riscatto o lanciare messaggi positivi contro bullismo e altre forme di discriminazione. Ma anche nell’umanizzare la giuria, nell’anteporre la persona al personaggio. Come quando si fa riferimento alla paternità di Manuel Agnelli. O alla multiculturalità di Hell Raton: cittadino del mondo, oltre le proprie origini, al pari di tanti giovani di oggi. Come quando Emma allude neanche troppo velatamente alla sua battaglia contro la malattia. O quando Mika parla della sua dislessia.

Meno forma, più sostanza. Meno confezione, più contenuto. Meno artifici, più storie. Più umanità. E la musica “che non si ferma mai” come filo conduttore (qui un barlume di ricercatezza almeno è rimasto). Ci sarà tempo anche per discutere e scontrarsi, magari ai live. Per anteporre il personaggio alla persona. Ma per ora X Factor sembra voler parlare piuttosto a chi, nel mondo post-Covid, è alla ricerca di una maggiore umanità, di uno spessore più profondo. E come dargli torto.