TELE… DICO | Il volto spietato di #CePostaPerTe: meglio augurarsi di non sedere mai su quel pouf?

Diffidare. Diffidare sempre. Anche di chi apparentemente non ne dà motivo. Nella vita e soprattutto in tv, dove il confine tra bontà, buonismo e perbenismo si fa sempre più sottile. Soprattutto quando si maneggiano storie di corna, di abbandono. Il dolore. La vita. Realtà (per quanto asservita a logiche televisive), non finzione. Perché nella finzione, come le rassicuranti fiction Rai insegnano, tutto prima o poi si aggiusta. Nella vita invece non sempre.

È il cuore di C’è Posta Per Te, nonché la ragione della sua intramontabilità: ultimo baluardo di un racconto del reale che sfugge all’agenda dell’informazione per intercettare, riflettersi, identificarsi nel vissuto quotidiano del telespettatore. Nessuna smania di visibilità, nessun sogno di gloria: non un reality, non l’illusione di una realtà fake, costruita ad hoc per appassionare il pubblico. Ma autenticità: il reale fine a se stesso, ingabbiato nei meccanismi di uno show che non ne forza (o non dovrebbe forzarne) l’avvenire.

Illusione anche questa, sì. Perché per quanto non lo si voglia ammettere, è impossibile che una telecamera, uno studio pieno di gente urlante non possano non influenzare una scelta. Magari l’apertura di una busta dura quanto il tempo di un abbraccio e una volta a casa ritornano i silenzi, i non detti. Eppure mai come in quei venti, trenta minuti si ha l’illusione di trovarsi davanti a un vissuto autentico. Qualcosa che non riesce a nessun altro show del genere, per quanto in questi anni ci abbiano provato in diversi. L’illusione che anche nella realtà e non solo nella finzione tutto si possa aggiustare, se solo lo si vuole.

Un tradimento, un abbandono. Persino le sorprese diventano occasione per qualche regalo. Contro la povertà. Contro la disoccupazione. Esibizionismo fine a se stesso. Buonismo a servizio degli ascolti, direbbe qualche detrattore. Ma che lo si ami o lo si detesti, al di là di ogni possibile chiave di lettura, qualcosa di indiscutibilmente spietato in questo tempio del sentimentalismo (o meglio dire “mausoleo”?) c’è. Ed è nell’esposizione mediatica a cui sottopone chi vi partecipa e il suo vissuto.

Non tanto i mittenti che scelgono autonomamente di partecipare, quanto i destinatari delle buste. Senza andare troppo lontano, basta guardare alla puntata dello scorso sabato, alla storia di una madre che tenta di recuperare i rapporti con i due figli. Proprio uno dei due, a poche ore dall’inizio della trasmissione, sul proprio profilo Facebook scriveva questo post: “Stasera ad un certo punto sarà raccontata una brevissima parentesi della mia vita su canale 5 nella trasmissione “C’è posta per te”… Astenetevi dal giudicare e mettetevi nei nostri panni…non è facile nemmeno per noi accettare tutto ciò”.

Impossibile chiedere ai social di non giudicare. Ma qui addirittura si è arrivati oltre. E sulla base di alcune parole ambigue della madre a una domanda di Maria De Filippi, sulla base di un “Di lui so tutto”, si è persino arrivati a dibattere sul suo orientamento sessuale. Nessun polverone: già oggi chi se ne ricorda più, certo. Dura poco, il tempo di una puntata. Ma non è questione di quantità né di qualità: anche solo un commento, anche solo il pensiero che la tua vita, il tuo vissuto, possa finire in pasto a gente che con te non ha nulla a che vedere può creare disagio.

Perché la popolarità fa gola a molti, ma non a tutti. E c’è chi in questo girone ci finisce non per sua volontà. Ecco l’altro volto di C’è Posta Per Te. Quello più spietato, distante dal buonismo che propaga. Nel suo essere per natura pop(ulista), ci porta dentro la vita di gente sconosciuta collocandoci su un piedistallo da cui giudichiamo tutto e tutti, senza limite.

Travalicando anche quello che dovrebbe essere il rispetto. Per le scelte altrui. Per il vissuto altrui che in fin dei conti noi non conosciamo davvero se non per come è stato confezionato da chi ce lo racconta. Nella consapevolezza (nell’illusione) che è tv e dunque tutto è lecito.

Quasi come fosse un reality-show qualunque dove vige il tacito accordo per cui io, concorrente, mi metto in gioco e tu, pubblico, giudichi. E io, concorrente, non posso poi lamentarmi se la mia vita finisce nel calderone. Ma quello è un altro mondo. Forse, a questo punto, meglio augurarsi di non sedere mai su quel pouf.