Dirompente. Rivoluzionario. Controverso. Può piacere o meno, ma è impossibile non riconoscere come il Grande Fratello abbia trasformato radicalmente il piccolo schermo. Riscrivendone la storia, segnandone il corso. I contenuti, la scrittura, il linguaggio: da quel 14 settembre di venti anni fa niente in TV è stato più lo stesso. Dentro, per chi vi lavora. E soprattutto fuori, per chi ne fruisce. L’occhio del Grande Fratello è l’occhio del telespettatore: niente più barriere. La TV, per tutti ma non di tutti fino a quel momento, con il Grande Fratello è diventata la TV di tutti, per tutti. E ognuno, con o senza particolare talento, ha potuto ambire ai suoi “15 minuti di gloria, di celebrità”.
Oggi si ricorda quella prima storica edizione. Se ne celebrano i fasti, gli stratosferici ascolti raggiunti, gli effetti nell’opinione pubblica. Ma un po’ di rammarico c’è: oggi, vent’anni dopo, la TV riparte ancora e proprio dal Grande Fratello (questa volta Vip). Per qualcuno l’indice dell’eterna forza di un format esplosivo (che, lasciatemelo dire, sembra comunque tutt’altra cosa da quel primo GF): in realtà il segno di una TV ferma a quel 14 settembre 2000. Incapace di crescere, di trovare idee altrettanto rivoluzionarie.
Una TV mordi e fuggi, che insegue sogni e fagocita emozioni, rubando dal reale. Li impacchetta ad uso e consumo di ciò che il pubblico vuole (o ha bisogno di) sentirsi dire. Una realtà semplificata, per esigenze di copione, che non si identifica nella sua complessità, nella profondità: lo “specchio della società“, come qualcuno lo definì in quel lontano 2000, è finito per infrangersi inesorabilmente. È forse questo il racconto del reale a cui pensava John De Mol quando più di venti anni fa diede vita a quell’innovativo esperimento sociale conosciuto in tutto il mondo come Big Brother? Davvero basta rinnegare il concetto di “privacy” per avvicinare tv e realtà e far crollare il muro tra credibilità e finzione?
Domande, oggi come allora, a cui è difficile trovare risposta. Difficile forse ancor più che smarcarsi da quell’etichetta. Rocco del Grande Fratello, Cristina del Grande Fratello, Marina del Grande Fratello. Pietro del Grande Fratello. E negli anni a venire anche altri, Luca Argentero o Eleonora Daniele per dirne due: gieffini per tre mesi, gieffini per sempre. Nonostante carriere ben avviate nel cinema e in tv. Nonostante talvolta siano proprio alcuni di loro i primi a non volerlo ammettere. “Dispiace vedere che una breve parentesi venga usata come etichetta negativa, anche dopo 20 anni. Vengo continuamente sminuito e screditato per quei tre mesi da partecipante…” ha scritto Rocco Casalino in occasione della reunion di domenica scorsa a Non è la D’Urso. E probabilmente c’è più verità in queste parole che in tutti i trionfalismi, le celebrazioni spese per questo ventennale.
L’etichetta: il lato oscuro del GF. Così come il bagno di popolarità immediata e la repentina caduta nell’oblio. Il peso di aspettative troppo alte, il senso di fallimento. Le difficoltà nel rinascere, nel reinventarsi. Nel dimostrare di essere qualcuno indipendentemente da quel marchio, da quelle due lettere: GF. E dalle etichette che il reality ti ha affibbiato: la Cenerentola, la “gattamorta”. Tra i 310 ex inquilini (nip) c’è chi in questi anni ne ha parlato. Chi invece ha preferito evitare. Chi è arrivato addirittura a rinnegare quel marchio. C’è chi è rimasto fermo a quella parentesi di vita. Chi invece è andato avanti, pubblicamente o meno. Testimonianze, esperienze di vita diverse, che sembrano quasi tutte voler dire una sola cosa: sopravvivere al post GF è più difficile del GF stesso.