Nel Festival della pandemia a vincere è stata l’impazienza. L’insofferenza. L’incapacità di leggere, oltre numeri e percentuali. E la ricerca della polemica facile. In questo caso, come sempre.
Nella sua ansia di raccontare, nel suo essere specchio del Paese, quest’anno Sanremo ha inevitabilmente finito per riflettere il peggio di noi. Il peggio di quello che la pandemia è riuscita a tirarci fuori in questi mesi.
L’insofferenza per le regole, il distanziamento. Lo sfiancante alternarsi di chiusure e aperture. È la stessa insofferenza per i diversi problemi tecnici, di audio e non solo, che si sono verificati sul palco. E giù polemiche.
Troppo difficile pensare all’imponente organizzazione che una manifestazione del genere richiede. E a come la riduzione dello staff, le esigenze di sanificazione e altre misure previste dal protocollo anti-Covid possano creare qualche problema in diretta.
E subito a scrivere: “No, a Sanremo non può succedere”. E a chiedersi, in tono sprezzante: “Ma non hanno provato prima?”. Perché l’imperfezione a Sanremo si paga. Pandemia o no, a Sanremo per qualcuno l’imperfezione non si può sopportare. Va condannata, anche in piena pandemia.
Gli stessi per cui, magari “che problema ci sarà mai a condurre senza pubblico?”. Che si sentono in diritto di sentenziare su tutto e tutti, pur non sapendo neanche da dove partire se dovesse toccare a loro organizzare non un Festival, ma neanche una piccola serata di karaoke.
L’incapacità di leggere, al di là di numeri e percentuali. In questi mesi, tra indici e parametri, conteggi e quant’altro ne siamo usciti pazzi. Numeri snocciolati così: i contagi, i ricoveri. Senza una lettura precisa, sono solo materiale per fake news e allarmismo. Lo abbiamo visto e si è visto a Sanremo.
Con i dati di ascolto, gli share. Le interazioni social. I confronti con le edizioni realizzate “in normalità”. Perché non lasciare queste considerazioni a chi se ne occupa quotidianamente, a Rai Pubblicità, agli inserzionisti, ai giornalisti. E noi, pubblico, indipendentemente da tutto guardare quello che Sanremo ci ha regalato: leggerezza, spensieratezza per qualche giorno. Qualcosa di diverso da colori, varianti e quant’altro.
Perché non pensare che oltre quei numeri, quelle percentuali, c’è il lavoro di tante persone: tecnici e maestranze fermi da mesi. Che avrebbero potuto fermarsi anche questa settimana: d’altronde, fosse stato cancellata l’edizione 2021 come è stato per altre tante manifestazioni, cosa sarebbe rimasto?
È un Festival che merita di essere considerato per quello che è. Per come è stato realizzato. Nelle condizioni in cui è stato realizzato. Nei suoi limiti, nelle sue capacità. Un’edizione a sé, figlia della pandemia, come si auspica non sia più così anche l’anno prossimo.
Ogni confronto con ciò che è stato, regge relativamente. Amadeus e Fiorello hanno dato il massimo di quello che avrebbero potuto dare in condizioni come queste. Sì certo, memore dell’esperienza dell’anno scorso, si sarebbe potuto fare con meno cantanti e chiudere prima.
Qualche correzione, aggiustamento, sarebbe stato opportuno. Ma anche solo il fatto di averlo portato alla fine con una pandemia sullo sfondo, senza pubblico, senza sottrarsi alle polemiche che, nel bene o nel male, fanno anche loro Sanremo, è di per sé qualcosa di unico. Di storico.
Accollandosi per altro il rischio di un cast particolarmente giovane, più nicchia che pop, musicalmente e televisivamente: un bel messaggio in un Paese che, anche prima della pandemia, per i giovani ha sempre fatto poco.
Spiace sapere che non ci sarà un Amadeus-ter, per quanto sicuramente andrebbe riformulato da zero. Spiace perché l’Amadeus-ter, con il ritorno del pubblico in sala, in qualche modo avrebbe chiuso un cerchio. Per lui, per noi, per il Paese. L’inizio e la fine di uno dei periodi più cupi. Se così non sarà, la colpa è anche un po’ nostra.