TELE… DICO | #AresGate, quello che non vogliamo vedere

“Il peso delle parole”. È uscito en passant, domenica sera, nello spazio che Non è L’Arena ha dedicato all’Ares-Gate. Richiamato da qualcuno, quasi di sfuggita. Perché ad alimentare il gioco qui sono piuttosto le menzogne, gli omissis, le presunte verità. Sono le accuse, le smentite. E “il peso delle parole” finisce quasi per perdersi nel confine tra ragione e torto. Tra inattendibilità e credibilità. Si perde nella superficialità con cui si parla di “sette”, di “manipolazione psicologica” e privazione di libertà. Nella leggerezza con cui si evocano nomi ed espressioni quali “Lucifero” e “istigazione al suicidio”. Si perde nella facilità con cui vengono lanciate accuse a mezza bocca. Tanto per tutelarsi, basta semplicemente omettere qualcosa. Oppure ritrattare. Come se il peso delle parole si esaurisse in un’omissione, in una ritrattazione.

È un po’ il gioco di chi, dietro uno schermo o una tastiera, si sente libero di poter dire la qualunque. Di lanciare offese, insulti gratuiti. Senza pensare al riflesso che quelle parole potrebbero avere non solo in colui (o colei) a cui sono indirizzate, ma anche in chi le legge (o le ascolta) pur non essendone destinatario. E che potrebbe comunque sentirsi offeso, anche solo per il semplice fatto che se ne parli con così tanta leggerezza. Proprio perché magari in passato ne è stato davvero vittima. E sulla propria pelle ha imparato cosa sia l’onta, il discredito che può generare un’accusa infondata, un chiacchiericcio infondato.

È quindi vero, forse, che abbiamo smesso di dare valore alle parole? Parole che si depotenziano anche nel momento in cui, da una dimensione personale, diventano di dominio pubblico. Nel momento in cui confidenze riservate, lettere, messaggi vengono diffusi pubblicamente per avallare una tesi, sostenere una posizione. Parole pronunciate con leggerezza. Senza cognizione di causa. Epiteti, bestemmie. Un campionario che il GF restituisce annualmente (e forse questa, tra gossip costruiti ad hoc e dinamiche a tavolino, è l’unica parvenza di “specchio della realtà” che ne è rimasta). E che si esprime in diversi modi. In una considerazione sul fascismo. In un “negro” o un “frocio” che, anche se in contesti scherzosi e inoffensivi, denotano un retaggio di ignoranza. E che la strada da fare è ancora tanta. E ancora in imprecazioni blasfeme, pronunciate quasi senza pensare perché “dalle mie parti è quasi un intercalare”. E persino in un outing: vero o presunto che sia, anche solo il parlarne può apparire penoso dal momento che non è di certo per volere dell’interessato.

Che ci siano mandanti o meno, che si tratti di un’allucinazione, di una vendetta o di cos’altro, non sta a noi dirlo, né stabilirlo. Nella sua indefinitezza (d’altronde se davvero uscisse la verità, il gioco cadrebbe) l’Ares-Gate è l’ennesimo caso “mediatico” che, proprio giocando sulla potenza delle parole, sui toni esasperati e scandalistici, porta interesse (e ascolti). E senza dire alcunché di nuovo: d’altronde che lo star-system sponsorizzasse coppie (e copertine) fake, imponesse stili di vita “pubblici” ben lontani da quelli in privato è noto fin dai tempi della ridente Hollywood (sì, quella incorniciata nell’omonima serie di Ryan Murphy). Comunque la si pensi, in questa storia di certo c’è solo l’incapacità di riconoscere il peso delle parole. L’utilizzarle con grande, troppa superficialità. Dandone per scontato il valore. A prescindere dalla posizione che si prende. È questo ad avvicinare il vero e il falso. E forse siamo proprio noi i primi a non volerlo vedere.